Attualmente la vita del docente universitario è segnata da un’iperattività che rischia di sconfinare nella nevrosi. Cosa sta succedendo? Ci siamo tutti messi a lavorare come matti? No, se per “lavorare” si intende lo svolgimento dei compiti specifici della professione, e cioè della didattica e della ricerca; ma stiamo diventando tutti matti per svolgere mansioni che non ci competono, per colmare le lacune delle infrastrutture e talvolta per creare le suddette infrastrutture. La riforma del 3+2 ha dato il colpo di grazia all’Università, gratificando il corpo docente di competenze e compiti che sarebbero dovuti rimanergli per sempre estranei.
Che dire adesso del progetto di riforma De Maio presentato al CUN il 5 febbraio 2003 con il dichiarato intento di assicurare maggiore flessibilità al sistema di reclutamento dei docenti e di ridefinire il loro stato giuridico?
Contiene dei punti che senz’altro condivido, come quelli riguardanti la verifica costante dell’attività didattica e di ricerca dei docenti; ciò segnerebbe a mio parere la fine di quella mentalità per cui una cattedra costituiva un canonicato, che il titolare deteneva a vita; la fine insomma delle baronie, trionfalmente sopravvissute al Sessantotto che in teoria era stato fatto contro di esse, e che s’era arrestato davanti alla tessera del partito di una buona metà dei "baroni". Tornando al progetto De Maio, sono i contesti a lasciarmi molti dubbi, contesti che sussistono come eredità e sviluppi di situazioni pregresse ormai marcite. Mi vien fatto di citare Dante che, grazie alla sponsorizzazione di Roberto Benigni, è ritornato per un momento nell’orizzonte della cultura nazional-popolare:
«Veramente Giordan volger retrorso
Più fu, e’l mar fuggir, quando Dio volse,
Mirabile a veder, che qui il soccorso» (Paradiso, XXII).
E’ difficile tentare di arrestare una frana, quando si è messa in moto; questa mi sembra la situazione attuale dell’Università; il frenetico agitarsi di tante sue componenti non mi sembra segno di vivacità, ma del suo contrario; mi fa pensare che la fine dell’Istituzione sia prossima. Motus in fine velocior; siamo nella fase della fibrillazione ventricolare, quando il muscolo cardiaco si contrae, ma il sangue non riesce ad arrivare al cervello.
Spero di sbagliarmi, ma questa è l’impressione che ricavo dal gran daffare che ci si dà, dal moto forsennato che si è costretti a compiere a tutti i livelli e in tutti i comparti della vita accademica.
Se l’Università ha esaurito la sua funzione, non saranno le riforme e le riforme delle riforme a riportarla in vita. Mi rendo conto che è molto difficile, oltreché doloroso, prenderne atto; ma è anche molto amaro ricavare dal pr