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Concorsi vecchi o nuovi? (ottobre-dicembre 2004)

di Dario Sacchi - 27 giugno 2006


Intorno alla metà di settembre alcuni prestigiosi esponenti dell’Accademia -tra i quali, per fare solo alcuni nomi, un premio Nobel come Rita Levi Montalcini, un ex Ministro della Repubblica come Sabino Cassese e un ex Rettore del Politecnico di Milano ora investito di importanti incarichi al MIUR come Adriano De Maio- hanno rivolto un appello al governo per invitarlo a promuovere con urgenza una modifica della normativa sui concorsi universitari stralciando la parte relativa a questi ultimi dal testo sullo stato giuridico dei docenti attualmente in discussione alla commissione Cultura della Camera e prevedibilmente destinato ad affrontare un lungo iter parlamentare. La stampa ha dato ampio rilievo a tale iniziativa, cui Letizia Moratti ha risposto in maniera indiretta chiedendo ai parlamentari della maggioranza di impegnarsi al massimo delle loro possibilità per chiudere in tempi brevi la discussione di tutto il provvedimento cui ella ha legato il suo nome, in modo da poter soddisfare l’autorevolissima richiesta senza doverlo sottoporre a mutilazioni di sorta.


Che dire? Sembrerebbe proprio una buona notizia: personalità di grandissimo rilievo come quelle sopra ricordate e altre ancora si sono dimostrate lodevolmente sensibili e attente a un tema assai importante, tale per sua natura da trascendere le divisioni degli schieramenti politici e ideologici, e per di più sono state capaci di mobilitarsi con efficacia intorno ad esso. Come non vedere in un evento del genere, fra l’altro piuttosto insolito per il nostro Paese, un segno decisamente confortante e soprattutto di buon auspicio per il futuro? Eppure, sia nel tenore letterale del documento sottoscritto dalle suddette personalità e diffuso dai giornali, sia nel modo in cui questi ultimi hanno per lo più presentato la notizia, non abbiamo potuto fare a meno di avvertire la presenza di una nota gravemente stonata.


In effetti chi si fosse accostato per la prima volta in questa circostanza al problema della selezione e del reclutamento dei professori universitari non potrebbe non averne riportato l’impressione che tale problema, con i suoi poco edificanti risvolti civici ed etici, sia una faccenda di questi ultimi anni. Qualcosa, insomma, le cui origini risalgono al 1999, allorché furono introdotti i concorsi locali, e che pertanto si potrebbe risolvere pressoché per intero ripristinando il sistema dei concorsi nazionali, magari con norme uguali o molto simili a quelle vigenti dal 1980 al 1999: in quell’epoca infatti gli standard etici delle comunità accademiche erano ancora buoni, e l’unico problema era costituito semmai dalle lungaggini della burocrazia ministeriale (d’altronde un problema non proprio irrilevante, se in quasi vent’anni furono portate a termine soltanto tre tornate concorsuali anziché le nove prefigurate dalla normativa del DPR 382/80). Insomma, per farla breve, il malcostume che sta minando la credibilità dei nostri atenei sarebbe un fatto recente e avrebbe un solo nome: localismo.


Si tratta di una visione che non può essere sostenuta in buona fede da nessuno che sia minimamente consapevole di come sono davvero andate le cose entro l’Università italiana Di certo il sistema attuale non è difendibile e deve essere modificato radicalmente; ma non perché abbia segnato un regresso nei confronti di un sistema precedente essenzialmente sano bensì, al contrario, perché si è dimostrato del tutto incapace di ovviare ai guasti che erano già insiti in tale sistema, il quale -non dimentichiamolo- nel 1998 era stato messo in soffitta senza rimpianti da parte di alcuno (e non solo a motivo della lentezza e della macchinosità inerenti a

 


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