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Anno 30 - 5 aprile 2018 


I FICHI SECCHI

di - 14 aprile 2005

Si apprende in queste ore che il Ministro, Letizia Moratti, ha  dato la sua disponibilità a una pausa di riflessione sull’iter legislativo dello stato giuridico di professori e ricercatori universitari. Tale scelta è non soltanto condivisibile, ma appare sostanzialmente l’unica possibile in questo momento.


Riassumiamo la situazione: a fronte di una richiesta proveniente dal mondo accademico, anche attraverso questo sindacato, e a un maturo dibattito su importanti modifiche e assestamenti da apportare alle norme che regolano il lavoro di professori e ricercatori universitari, dopo che nella scorsa e nella presente legislatura diverse proposte di legge avevano variamente portato dei contributi, il Ministro Letizia Moratti ha presentato un proprio disegno di legge, già pubblicato su queste pagine con  le nostre valutazioni pro e contro.


 Il problema principale che certamente ha impedito anche allo stesso Ministro di proporre qualcosa di meglio è senz’altro e sin dall’inizio quello economico. E qui bisogna essere chiarii: dopo quindici anni durante i quali il lavoro all’università è diventato più brutto e più pesante, mentre le retribuzioni sono rimaste quasi immobili in termini monetari, ovvero hanno perso il 70 per cento del valore di allora (già basso rispetto alla media dei paesi del G8 cui l’Italia appartiene), qualsiasi intervento sullo stato giuridico non può prescindere dall’urgenza di ridare decenza e credibilità al trattamento economico dei professori e dei ricercatori. E’ vero che tutto ciò si scontra con una situazione economica di precarietà e  di urgenza per lo Stato di trovare risorse al fine di migliorare i conti pubblici senza alzare (auspicabilmente abbassando) le imposte. Ne sanno qualcosa in particolare i molti colleghi vincitori di concorso o chiamati per trasferimento, impossibilitati ad assumere servizio per il blocco delle assunzioni, cui pongono insufficiente rimedio le deroghe di caso in caso finanziate dal Ministero.  Ma nessuno può pretendere che a tirare la cinghia sia ancora il mondo universitario. Anche perché nel frattempo le altre uscite dello Stato hanno avuto ben altra dinamica. Basta fare qualche confronto con gli andamenti retributivi dei dirigenti – anche quelli delle Università -- , dei magistrati, dei parlamentari.


In questi anni gli unici aumenti delle nostre tabelle retributive sono le miserie percentuali calcolate annualmente “sulla base degli incrementi medi degli stipendi pubblici nell’anno precedente”. Quest’anno, ricordo, si è trattato dell’ 1,3%. Molto meno del tasso di inflazione dichiarato! Qualcuno potrebbe obiettare che si tratta pur sempre di un calcolo equo e onesto, dato che si basa su quanto percepito dagli altri statali. Ma ciò non è vero nemmeno questo. Infatti la percentuale si calcola su tutti gli stipendi, quelli piccoli (che son di più) e  quelli grandi che son molti di meno; quindi in sostanza più sui piccoli che sui grandi. Quindi si applicano sulla paga lorda. A questo punto per uno stipendio basso, poco tassato, l’aumento finisce in gran parte in busta paga; nel nostro caso, con stipendi fiscalmente “alti” , diventa in gran parte una partita di giro: nel momento stesso in cui lo Stato ci dà con una mano cento euro di aumento, ne toglie (fra trattenute fiscali e parafiscali, nazionali e locali) sessanta; sempre che non si raggiungano così soglie particolari (per esempio nel calcolo delle tasse scolastiche dei figli): altrimenti l’ “aumento” div

 


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